Cinema (Rome) (Oct 1939 - Jun 1940)

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che resta nei termini del realismo, è soltanto insistenza su certi contenuti, o al massimo un mestiere troppo acceso (vedi l'abuso, tutto spettacolare, dei movimenti di macchina) : non è mai uno stile, comunque. Ma il senso d'una persona si svela nei luoghi semplici dell'elegia e magari dell'idillio. 0 in un vivo sentore di pittura, come ha bene annotato Pasinetti per una scena della fin du jour. Questo, se vogliamo cercare in lui ciò che da tanto celebrato artista si pretende, una qualche poesia; ma se gli diamo uno sguardo d'assieme, Duvivier è la Francia. Della Francia si porta il bene e il male. Egli sconta fino all'estremo il genere più caro alla produzione del suo paese: un genere eh 'è volta a volta ambientale (eccessivamente) o psicologico (troppo poco), e che raggiunge il massimo, come sempre accade, negli iniziatori, Chenal, Feyder, Renoir, o più ancora certi stranieri di precedenti solidi, Pabst, Wiene, Ozep, che lavorando in Francia ebbero a dare molti insegnamenti; mentre decade negli imitatori, diventando retorica nella produzione corrente. Il caso del giovine Carnè, che batte questa via con insolita intensità, è forse il punto estremo a cui era possibile arrivare. Per il resto, l'effetto e la letteratura tengono il campo. Anche per i francesi, dunque, si pone ormai il « rinnovarsi o morire »? Si, ma in senso diverso da quello degli americani; questi stanno esaurendo ogni possibilità, i francesi hanno solamente esaurito un tipo di film. E che abbiano possibilità per far altro, potrebbe dimostrarlo presto o tardi un auspicabile ritorno allo spirito di Clair. Per continuare gli esempi : i tedeschi dimostrano, in un senso prettamente contenutistico, d'essere ormai lontani dallo spirito freudiano-espressionista dei loro film del dopoguerra; tuttavia, la loro tradizione stilistica ha in quei film, in quel modo di narrare, la sua profonda e legittima radice. Un film di recente edizione, qual'è il giocatore di Lamprecht, così corretto e denso, può dimostrarlo sufficientemente. Ugualmente gli svedesi, nella loro rinascita attuale, si rifanno a Sjòstrom, a Stiller. E l'Italia? Dall'Italia, ormai, è lecito attendersi molto, come dalla nazione produttrice che, per ragioni storiche, tende più necessariamente al » nuovo ». E per citare un esempio nuovissimo: nel montevergine di Campogalliani, c'è il caso che lo spettatore avverta il filone d'oro del nostro cinema, il realismo paesano e romantico degli sperduti nel buio di Martoglio. C'è tutto un Sud operoso e ottocentesco, a esaltarsi nel Nazzari di montevergine, italiano solido e onesto, lavoratore ed emigrante di una antica malinconia; e nella regìa forte e semplice, che riconduce a valori espressivi un soggetto convenzionale: alla Mastriani, add'rittura. Così un film italiano, proprio non riuscendo ad assomigliare a nessuna delle formule in giro per l'America e l'Europa, raggiunge il suo grado di universalità. Uguali e diversi motivi autorizzerebbero ora, se avessimo tempo, un discorso su altri dei recenti film italiani, piccolo hotel, per esempio, di Piero Ballerini su cui si sono inusitatamente accaniti taluni critici soliti a chiuder tutti e due gli occhi sulle più sciagurate esercitazioni del « comico-senti mentale ». Qui, l'assunzione a sfondo d'un paesaggio o un ambiente tipicamente italiano — che diventa protagonista in un montevergine come in un terra di nessuno o in una fossa degli angeli, risolvendosi in un linguaggio di buona tradizione — lascia il luogo ai frutti della solida educazione europea di Ballerini, esemplificata su illustri modelli. Questo regista, è chiaro, mira anzitutto ad essere uno degli <( individui » cui si accennava sopra, e per cui non valgono riferimenti d'indole generale : batte il tracciato storico d'una via che possa concedere, alla fine, risultati personali alla sua insistita tendenza all'indagine sia d'anime che d'ambiente. Ma l'avvio personalissimo d'un regista può finire, magari a suo malgrado, col collaborare ad un indirizzo nel modo più segreto. Questo intrecciarsi dei contributi, che distrugge in parte la distinzione teorica che abbiamo sollevata, ha da noi una dimostrazione, da anni, nei film di Alessandro Blasetti. Il quale ha stretto in un nodo poetico una tendenza alla « nazionalità » ambientale e morale, e le risorse individuali d'uno stile. E insomma, all'incontro tra un desiderio d'inconfondibilità, necessario alla media produzione, con temperamenti di artisti esclusivamente affidati al cinema, crediamo come alla più probabile fonte d'una nostra fortuna nella storia dei film. Senza dimenticare che, andando un poco indietro, certe tradizioni, da noi, si trovano. Ma sulle tra dizioni, sull'illustre paternità del cinema italiano, ci auguriamo di fare altro discorso, al più presto e, speriamo, in modo un po' diverso dal solito. RUGGERO JACOBBI 276