Cinema (Rome) (Oct 1939 - Jun 1940)

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L'attrice Michèle Morgan e l'attore Jean Gabin, in riva all'Atlantico, nell'anteguerra accompagnava le scene, con occhi di sogno l'arcangelo fissava la colomba, ormai del tutto vinta ed esangue. Per nulla al mondo, neppure in omaggio al nostro sfortunato cinismo, avremmo potuto rinunciare ad assistere alla conclusione che si avvicinava fatalmente come nelle antiche tragedie, c'era su quella tela, in quelle effimere ombre, il richiamo ad una eternità che la guerra, su in cielo, non poteva avere per noi. L'umanità, pericolante nel vecchio continente ottenebrato, trionfava in qui sussurri amorosi, in quelle vivide luci bianche e grige, in quel delicato morire di una donna, in quel furore appassionato di un uomo che credeva vera sulla terra soltanto la propria disperazione di rejetto; la umanità era in quella gente che guardava intenta, ed era richiamata a rimpianti lontani e ricordi come se tutta la sua storia rifiorisse lì, sullo schermo, e nulla più contasse al di fuori di quel che ognuno aveva potuto o non potuto amare. L'evocazione romantica di questo film trionfava di un tempo in cui ogni pietà e tenerezza parevano spente. Tant'è vero che quando — morta la colomba, trasfigurato l'arcangelo in pallido fantasma — si rifece la luce nella sala, io vidi molti occhi velati, di donne e pure di uomini, ma non vidi spavento alcuno. I colpi di cannone seguitavano alti, ma erano estranei ad ogni possibile commozione. Quando uscì per immergersi ancora nel buio dei Campi Elisi, quella gente si ritrovò sola. Il grande viale era del tutto deserto, certo le guardie avevano costretto i passanti a rifugiarsi nelle case. Gli spettatori si dispersero in silenzio, presto tutti scomparvero nell'ombra. Erano come il coro di una tragedia che, dopo le pietose morti, sussurrando appena si dilegua dietro le quinte. Rimanemmo anche noi soli, le automobili vuote, in mezzo al viale, ci guardavano come bestie inerti dagli occhi malati. Dietro la nuvolaglia nera palpitavano rapidi fuochi, seguiti da uno sbattere impetuoso come di porte di ferro. II vento, come nel film, sibilava tra gli alberi spogli. Eravamo soli, in questa totale, cupa solitudine delle buie notti parigine. Una solitudine senza scampo, in cui ogni pensiero fugge smarrito come un uccello preso dalla tempesta; e così non si resta attratti che dal desiderio di queste fulminee partenze, e ogni volontà rimane inespressa, pur lasciando, poiché era nata, una vibrazione continua nella coscienza. A chi ci domandasse qual'è il segno più vero di questa guerra, potremmo anzi rispondere che è proprio un continuo evadere dalla realtà quotidiana, un rifiutarsi di accettare l'evento nella sua forma più consueta, un vibrare, un oscillare perpetuo sotto il tocco di pensieri rapidi e sfuggenti; e un piacere quasi inconfessabile di trovarsi soli, un desiderio di ridarsi valore, di soffrire per se stessi; di riscoprire intatta la propria e l'altrui umanità. Ecco forse perchè agli spettatori di quel pateticissimo film, importavano di più le smanie e le tenerezze d'amore dei protagonisti che non i colpi di cannone in cielo, sopra le tetre strade di Parigi. Questa guerra potrebbe essere una rivincita, di cui l'arte di domani dovrà tener conto. Q. B. ANGIOLETTI 43