Cinema (Rome) (Oct 1939 - Jun 1940)

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col quale mi sarebbe impossibile d'avere qualche somiglianza. Ma il personaggio che interpreto, a lavoro quotidiano finito, deve restare nel camerino fino al mattino seguente. Mentre recito, vivo in un mondo immaginario, dando vita a personaggi immaginari, precisamente come mi succedeva quando « vivevo » le fiabe lette da bimba. Che riesca, o meno, tento sempre di far conoscere i miei cari « fantasmi » al mio pubblico come a me stessa. Quando devo personificare una figura storica, o il protagonista d'un romanzo celebre, o una persona dall'accento che mi è estraneo, il lavoro si complica. Ore e ore sono dedicate alla conoscenza della vita di questi personaggi, a studiare la loro esistenza e le loro abitudini, fino a saturarsene, per finire col conoscerli tanto bene che mi sarebbe realmente impossibile di fare qualcosa che non somigli a loro. Pensate al tempo trascorso da Paul Muni ad appropriarsi dell'esistenza di Pasteur e di Zola... Quando girai schiavo d'amore [Of Human Bondage] rifacendo il personaggio di Mildred, il romanzo mi servì da breviario. Lo lessi e rilessi fino a conoscerne a fondo ogni pensiero. Mildred domandava in più l'accento «cockney », atroce acrobazia per un'americana : vissi per otto settimane con un'inglese che sapeva parlarlo. Quest'accento mi divenne così naturale che durante schiavo d'amore non mi accorgevo nemmeno d'adoperarlo. Qualche volta, è vero, mi dico sottovoce che, dopo tutto, la maggior parte delle persone che ci vedono sullo schermo chiedono molto meno di quanto noi stesse esigiamo. Ma credo d'avere una particolare passione dell'autenticità. Un punto importante è quello della maniera con cui un'attrice impara il suo testo. Per mio conto, se dedico molto tempo all'atmosfera del film futuro, imparo le battute alla vigilia d'ogni scena. In questo modo esse sono fresche nel mio spirito durante la giornata di lavoro. Se, al contrario, una scena è fatta di lunghe tirate — di più in più rare — la imparo molte settimane prima. La fine d'una giornata di lavoro è per l'attrice una liberazione; spossata mentalmente e fisicamente in ogni caso, lo è al doppio se la parte è priva d'interesse, poiché bisogna ad ogni costo spremerne qualche cosa. Questa idea della stanchezza sorprenderà i dilettanti; si pensi che una scena vien girata da un minimo di tre volte a quindici volte e più! Fissare una scena in una sola ripresa è assolutamente un miracolo. E dopo questa giornata, a letto alle dieci : il « truccatore », infatti, non possiede grandi risorse per rialzare gli occhi cerchiati. È per questo che posso dire che questi miei ultimi dieci anni di vita non sono stati che un durissimo lavoro. Quando si parla di « fortuna », non si dimentichi che l'attrice che è riuscita ha passato molti anni della sua vita a lavorare e a sperare. Ha avuto un coraggio e una fede sufficienti per rimanere legata a una professione che essa ha amato malgrado ostacoli che le sembravano insormontabili. Infine è venuta la vittoria e il diritto di essere considerata « qualcosa » nella sua cerchia. Ma nessuno a questo mondo ottiene mai nulla per nulla. La fortuna aiuta molto a giungere alle vette; ma non servirà a lungo per restarvi. Quante attribuiscono il loro successo alla fortuna, o sono molto modeste o sono poco sicure del loro valore. Si « arriva » con un duro lavoro, aiutato da una buona salute, e sopratutto dalla volontà inflessibile di non lasciarsi fermare da nulla ». Il tono di Bette Davis, il suo tono naturale, non è dissimile da quello dell'artista; a volte, le sue brevi impertinenze, leggiadre quanto i suoi sorrisi di malizia, ci riportano a jezebel, ov'essa — a fianco d'un Henry Fonda sobrio e senza ricerca d'effetti — rappresentava tutto l'irrazionale, l'eroico e il santo della donna. Questo, che fu diretto da William Wyler, con the sisters, mi sembra il mondo in cui Bette si è meglio espressa : perchè, com'essa ha voluto dire, essa vi apparteneva, anche al difuori dei limiti del suo corpo e del suo spirito. LO duca 390