Cinema (Rome) (Oct 1939 - Jun 1940)

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GLI OCCHI NEL VUOTO DI FRONTE ai bambini si è spesso timidi, davanti agli inferiori impacciati, davanti agli affari vigliacchi. Io, che vivo in campagna, ho paura del mio fattore. In quei momenti adotto un rimedio semplice e provvisorio : vado a fare una scappata in città. E, lasciandomi prendere dalla calca, assaporando la gente, in quel che di comunicativo e di invadente che c'è nelle strade, ritrovo me stesso; ossia, con la coscienza di essere come tutti e non con quella di ciò che ho di particolare, ritrovo la mia vera umanità e la mia vera ricchezza. Mi dirigo dunque, fuggiasco, a una piazzetta segregata dove un riflettore manda una luce che annienta. Invece di una lampada elettrica quel riflettore contiene un apparecchio che uccide ciò che cade sotto il fascio di luce, che lascia le cose in piedi, ma morte. Là c'è il vecchio teatro dei Rassegnati, oggi Supercinema (l'unico cinematografo passabile della città di provincia) di una grandezza cadente e tetra. Un campanello suona fìsso per richiamare il pubblico e sembra che sia il rumore del riflettore micidiale. Ma la facciata (che può rammentare anche quella d'una chiesa smessa) è mezza mascherata da un enorme cartellone dov'è scritto -un nome e raffigurata la faccia rubizza d'un comico celebre in altri tempi. Da molti anni non ci pensavo più, m'ero scordato della sua esistenza. É proprio lui o un bamboccio con un nome e una faccia che gli rassomigliano, tanto per sfruttare la fama del grande? Mi pare impossibile che quello vero, quello grande, sia andato a finir proprio lì. Accanto alla porta ci sono anche dei telai appoggiati al muro con fotografie di scene cinematografiche vecchie e punteggiate dalle mosche, molto guardate e ora rigettate dal pubblico scelto. Ci si ferma a puntarle qualche ragazzo che va a scuola, o un militare infagottato e serio come se fosse in chiesa di fronte a una divinità. Anch'io mi fermo davanti a quelle scene sbiadite e vi osservo con delizia mode e atteggiamenti passati, pieni di gusto, che sfuggono a molti o interessano pochi; e, davanti a quelle fotografie vecchie, mi scopro degli occhi nuovi. Riconosco l'attrice che un tempo mi piacque fino a vergognarmene. E per prendere il biglietto devo far forza a un sentimento di pudore, a una forma di rispetto verso le cose che piacciono troppo. La sala è quasi vuota perchè è l'ora di cena. Potrebbe essere anche un'autorimessa. Vuoti e sonori sono i muri, usata la luce, usate le decorazioni dozzinali prima di esser diventate vecchie. La tettoia è di vetro e si capisce così come la sala sia nata in un cortile, in uno spazio soverchiato da fette di casamenti che si intravedono quando, di tanto in tanto, il soffitto si apre per lasciare entrar aria e pare che tutti i panni alle finestre sgocciolino sul naso degli spettatori. Il palcoscenico è costruito con tutte le regole, con la maschera comica e la maschera tragica, una lira, un'iscrizione latina, due donne nude e una tenda con finte pieghe fatte alla brava, trattenute da due cordoni con nappe gialle. Il cinematografo era venuto dopo, quando Stenterello andò in disuso; però il teatro non poteva essere abolito per quel pubblico grossolano e di gusti reali che si dilettava sì alle ombre, ma voleva poi anche persone vive, voci vere e luci da guardarsi in faccia. Osservo in giro, in un breve momento di luce. Intorno a me, in un'atmosfera fumosa senza che vi sia fumo, tra un odor di tavole infradicite e di segatura (un odore da circo equestre), siedono sparse rare persone. In fondo, due omoni che traboccano dalle seggiole, con le teste reclinate in dentro quasi fino a toccarsele, se ne ridono fanciullescamente a ogni battuta comica. Nella prima fila, sotto il telone, un giovinetto solo, a sedere come sui banchi di scuola, se ne sta con la sensazione pesante della scappata. Forse, entrando, si è vergognato come me. Sembra che sia ora lì a posteggiare l'attrice più che a veder lo spettacolo. Nella mia stessa fila una giovinetta già sciupata, mal dipinta, vestita con polvere e pretesa, accende una sigaretta e, negli intervalli, legge gli avvisi economici su un giornale ripiegato in quattro. Entrano poi due vecchiette che s'appuntellano l'una all'altra e tastano avanti a sé con un bastone. Il pubblico, su per giù, che s'incontra nelle latterie. Quando il film è finito, sento di nuovo intorno a me il vuoto, che mi pare di dover nuotare. La sala ripiomba in quel grigiore indeterminato. Rivedo i miei due omaccioni, l'adolescente, la giovinetta traviata, le due vecchine che s'appuntellano l'una all'altra, e poi, là in fondo, una faccia solitaria e piena, e di qua una donna con un pellicciotto spelacchiato e una bambina vestita da scimmietta; ogni tanto una faccia di più, una persona di più seduta comoda comoda come se ce l'avessero portata così, pari pari. Mi pare di assistere a un gioco di bussolotti. Ecco che l'orchestra si anima. Il pianista che nutre la chioma dà l'espressione con la testa, guardando lo spartito per non perdersi. Un giovane flautino con stivali e pantaloni alla zuava fa un a solo e, pur soffiando con quel sorrisetto stereotipato dei bandisti che danno negli strumenti a fiato, guarda di sottecchi la sala e pensa forse che, a spettacolo finito, potrà correre alla palestra. Più là c'è un grasso che par si sia dimenticata la grancassa fra le gambe e ogni tanto lascia cadere un colpo con distrazione, come se lasciasse andare uno sputo. Il clarino, un tipo denutrito con gli occhiali da miope, in un momento di riposo, guarda l'ora. Le cantanti del varietà appaiono fulminate in piedi dai riflettori come le case, nella piazzetta, da quell'ordigno annientatore che le lasciava morte, ma ritte, sotto la luce. Salutate da applausi poco spenderecci, si ritirano con riverenze caricate che equivalgono a dei rumori senza grazia e senza ossequio fatti partire dalle labbra. Ma io aspetto il numero principale, il celebre canzonettista, il più celebre di tutti, quello che non vedevo da quasi quindici anni. Mi ci avevano condotto una volta prima della guerra, a uno spettacolo diurno per bambini (a Roma, alla Sala Umberto, dove c'era lui e c'erano anche i cani ammaestrati), e poi l'avevo rivisto, subito dopo la guerra, al Salone Margherita. Cominciava a passare la voga, ma, fosse che il pubblico avesse una smania enorme di divertimento, fossero gli ultimi bagliori suoi e di quel mondo del varietà che si spengeva, fosse anche la mia età che era quella del cattivo gusto e dei facili entusiasmi, mi fece un'impressione ancora più grande. Ecco la marcia trionfale, il riflettore che ronza, eccolo apparire tutto rotondello il mimo, il cantore, di fondo al palcoscenico. La luce gli rende la pelle viola. Brillano i suoi occhietti come se ci avesse spalmato sopra quella vernice che si danno le signore sulle unghie. Ma è vero o finto? Ed è lui o un imitatore? È lui, proprio lui, il suo passetto da beccafico, la sua pancetta gloriosa, la sua maniera di guardare in alto, di aggiustarsi il solino, di mirarsi l'anello aspettando che finisca la musichetta d'apertura. Soltanto, io avevo visto quegli occhietti luccicanti percorrere un teatro caldo e gremito ed elegante : ora, con le medesime mosse, senza mutar niente, proprio niente, guardava un teatro vuoto, i suoi occhi s'empivano di vuoto. Forse il mestiere. E l'unica cosa che pensai, lì per lì, fu questa : « Perchè i suoi vestiti gli stanno così ciondoloni? ». Difatti era invecchiato e pareva sgonfiato e l'anello brillava meno. Ma, più che il cantante il quale diceva ora una canzonetta moderna abbastanza comune e non fatta per lui, io osservavo in me un cambiamento avvenuto per mezzo di una sostituzione lenta e insensibile dei gusti, dei desideri, delle opinioni. L'avevo amato troppo di lontano il mio divo, s'era stabilito tra me e lui un rapporto ideale per il quale il minimo errore di tono, la prima movenza che non rispondeva a questa perfezione ideaie (l'invecchiamento stesso, il luogo dove si esibiva) era una minaccia. Non lo ritrovavo ora che nelle canzonette che ripetevo mentalmente, dove facevo io stesso i gesti e ia 278